Milioni di euro per mascherine inutili. Ecco l’eredità di Conte
Nei magazzini ci sono 218 milioni di mascherine fuori norma. Lo stoccaggio costa 313mila euro al mese. E Figliuolo deve spenderne 698mila per smaltirle
Eccola, una delle pesanti eredità lasciate dall’era Conte a Palazzo Chigi. La si può toccare con mano, o meglio con portafoglio. Avete presenti le mascherine di comunità, che per un certo periodo il governo ci autorizzò a portare e adesso non indosseremmo neppure per andare al gabinetto? Bene: nei magazzini della struttura Commissariare, che fu di Domenico Arcuri e adesso è affidata al generale Francesco Figliuolo, giacciono oltre 218milioni di mascherine inutilizzabili che ci costano ogni mese 313mila euro di stoccaggio. Una cifra monstre cui occorre aggiungere il bonifico che i contribuenti stanno emettendo in queste ore per pagare la società incaricata di smaltire queste circa 2.500 tonnellate di rifiuti.
Questa triste storia inizia il 17 marzo del 2020 quando l’allora governo Conte II, vista la difficoltà nel reperire mascherine chirurgiche o FFP2 sul mercato, approva il cosiddetto Decreto Cura Italia. La norma permetteva agli italiani di indossare le cosiddette “mascherine di comunità”, in sostanza “mascherine filtranti prive del marchio CE e prodotte in deroga alle vigenti norme sull’immissione in commercio”, nella speranza, vana, di bloccare almeno un po’ l’epidemia. Il Commissario ne comprò “un ingente quantitativo”, nonostante non fossero “soggette a particolari certificazioni”. Ad oggi ne sono rimasti 218.500.000 di pezzi. Una montagna stivata nei magazzini della SDA nel nord e nel centro italia. Lo stoccaggio non è gratuito, ovviamente: la struttura commissariale (ovvero noi cittadini) paga ogni mese 313mila euro solo per tenere lì ferme dei prodotti del tutto inutili. Quelle mascherine infatti “non sono mai state richieste né dalle Regioni né dagli altri enti convenzionati” e soprattutto “oggi non trovano più alcuna possibilità di impiego”. Non essendo stati prorogati i termini del Cura Italia, dal 30 aprile 2021 ne è scattata la “definitiva impossibilità di utilizzo”: la legge ne vieta l’utilizzo, visto e considerato che sono “dispositivi non certificati con scarsa capacità filtrante non conformi ai requisiti di legge”. Tradotto: sono da buttare.
Le partite interessate sono di tre tipologie. Ben 73milioni di pezzi sono mascherine monouso in tessuto non tessuto, quelle con due tagli ai lati da infilare nelle orecchie che l’allora assessore alla Sanità della Lombardia, Giulio Gallera, definì “carta igienica”. Inservibili. Poi ci sono 140milioni di pezzi di mascherine carine, con stampa a colori, ma che stando alla scheda tecnica non garantiscono protezione né dal contagio né dal rischio di infettare gli altri. Inutili. Infine restano 5,1 milioni di dispositivi con elastici e nasello in metallo, simili a quelle chirurgiche ma senza le stesse caratteristiche tecniche. Pure queste, da cestinare.
Figliuolo ha cercato in due diverse occasioni di piazzarle in giro. La prima volta a giugno del 2021, la seconda a ottobre dello stesso anno: cercava operatori economici che le volessero comprare anche se non più conformi alle norme. Le indagini di mercato sono andate ovviamente deserte. A quel punto, per evitare di continuare a sborsare centinaia di migliaia di euro al mese per nulla, il generale ha deciso di smaltirle. Ha contattato alcune aziende che si occupano di riciclo e ha scelto la ditta A2A Receycling Srl. Alla modica cifra di 698mila euro più iva, l’azienda si occuperà del ritiro e dello smaltimento della mascherine. Lo farà con tutti i crismi del caso: dalla riduzione dell’impatto ambientale al recupero di materiali cartacei, lignei e plastici. Benissimo. Il punto però è che tra una cosa e l’altra, considerando il 30 aprile 2021 come data ultima di utilizzazione delle mascherine incriminate, negli ultimi dieci mesi lo scherzetto ci è costato una cifra enorme. Facendo i conti della serva, tra stoccaggio e smaltimento parliamo di circa 3,8 milioni di euro circa. Buttati via.