«L’accusa», un film per riflettere sulla cultura dello stupro
Il film di Yvan Attal interroga lo spettatore sulla violenza delle relazioni sociali, sulla dominazione maschile, ma anche sull’influenza di social e media nell’era post #MeToo
Quando un’azione diventa abuso? Quando un comportamento aggressivo diventa intollerabile violenza? Ci dovrebbe essere la legge a decidere la verità ma ci sono dei casi in cui questa differenza passa attraverso un’ambiguità o una diversità di interpretazioni che rendono difficile stabilire una verità. Soprattutto di fronte ad atti come quello al centro del film L’accusa di Yvan Attal: per la giovane Mila (Suzanne Jouannet) quello che ha subito da parte di Alexandre (Ben Attal) non è stato altro che uno stupro e per questo ha deciso di denunciarlo, incurante del fatto che lui sia il figlio della nuova compagna di suo padre. Ma è andata davvero così?
Un breve antefatto ci fa entrare in medias res. Vediamo Alex tornare dagli Stati Uniti dove studia per assistere alla consegna della Legion d’onore al padre Jean (Pierre Arditi), celebre giornalista televisivo più attento a collezionare amanti che ai suoi doveri di genitore. Inevitabile che la moglie Claire (Charlotte Gainsbourg, nella vita reale moglie del regista e madre del giovane protagonista) lo abbia lasciato e viva con un professore di letteratura (Mathieu Kassovitz), a casa dei quali Alex è stato invitato a cena, conoscendo così Mila. Incoraggiati dai rispettivi genitori, i due ragazzi vanno insieme a una festa, ma la mattina dopo la polizia si presenta a casa di Alex e senza andar troppo per il sottile lo ammanetta e lo porta in carcere. Accusa: aver stuprato Mila.
Inizia qui il percorso (che il film divide in quattro capitoli: «Lui», «Lei», «30 mesi dopo» e «Le arringhe») durante il quale tutti insieme — personaggi del film ma anche spettatori — cercheranno di capire dove sta la verità, sforzandosi ogni volta di analizzare e interpretare una frase, un’ammissione, una contraddizione, una domanda. Senza affidarsi a nessuna suspense o colpo di scena (non siamo in un giallo) ma per capire fino a dove le parole di ognuno si avvicinino alla verità oppure nascondano altro (differenze di classe, di educazione, di sensibilità ma anche arroganza, timidezza, inganno, supponenza).
La scommessa del film, sceneggiato dal regista e da Yaël Langmann, a partire dal romanzo Le cose umane di Karine Tuil (pubblicato in Italia da La nave di Teseo), è quella di ragionare proprio sul concetto di verità e sul giudizio che ognuno, a cominciare dai giurati al processo, dovrà dare. Per una volta, però, non c’è il facile giochetto «visto da lui» o «visto da lei», ma piuttosto il confronto tra due modi di intendere i rapporti con l’altro sesso (possesso, sottomissione, arrendevolezza, complicità…), senza contare l’influenza e la risonanza mediatica che il caso produce e poi quale tipo di «educazione al sesso» (concedetemi le virgolette) Alex e Mila hanno interiorizzato.
Per questo forse, più del dibattito processuale vero e proprio, colpiscono le «testimonianze» di chi è chiamato davanti alla corte: Claire, costretta a scegliere tra il ruolo di polemista che le ha dato successo e quello di madre colpita nei suoi affetti; Jean che alla fine finisce per rifugiarsi in quella maschile «zona grigia» che sembra nascondere troppe giustificazioni; le vecchie fiamme di Alex che svelano ognuna un atteggiamento diverso — chi remissiva, chi complice — di fronte alla sessualità. Ma anche il peso dell’educazione tradizionale di Mila, costretta a rivelare comportamenti che non avrebbe mai voluto rivelare ai propri genitori o la superficialità degli amici di Alex che scommettono su chi conquisterà chi solo per elettrizzare l’atmosfera di una festa.
Così alla fine nemmeno i brevi flashback che dovrebbero ricostruire quello che è avvenuto aiutano a scoprire la verità, né lo fanno le arringhe degli avvocati, ognuna delle quali finisce per difendere una prevedibile scelta di campo. Resterà quindi allo spettatore — e qui è il vero merito di un film che non vuole essere manicheo — riflettere su quello che ha visto e piuttosto che emettere un personale giudizio di condanna o di assoluzione, ripensare a come le azioni umane possono assumere valori diversi. A volte finendo per offendere e umiliare.