La Roma degli Inglesi
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“Tutti l’Ingresi de Piazza de Spagna / nun hano antro che dì si che piacere / è de sentì a San Pietro er Miserere”. Come fa capire Giuseppe Gioacchino Belli in questi versi del 1836, Piazza di Spagna era ai suoi tempi il luogo intorno a cui gravitava la colonia degli stranieri, soprattutto anglosassoni, che giungevano a Roma in cerca di quelle sublimi emozioni che si ritrovano puntualmente espresse in innumerevoli lettere, dipinti e acquerelli.
Anche se la piazza ha sempre goduto di una particolare predilezione presso gli stranieri, è immediatamente dopo le guerre napoleoniche che diventa una sorta di “quartiere inglese”, con l’affermarsi di due famosi locali da essi frequentati: lo scomparso Caffè degli Inglesi al numero 85, e il celeberrimo Caffè Greco in via Condotti. La zona adiacente pullulava di locande ora sparite, ma ancora sopravvive qualche albergo, come l’Hotel d’Inghilterra in Via Bocca di Leone, il cui nome fa riferimento proprio alla clientela che era solita alloggiarvi.
I POETI ROMANTICI INGLESI
Niente di strano quindi che i maggiori poeti inglesi di età romantica, quali Keats, Shelley e Byron, avessero scelto questa piazza per il loro soggiorno romano, lasciandovi tanti numerosi ricordi. Molti di questi sono raccolti nella cosiddetta Casina Rossa, cioè il palazzetto al numero 26 dove John Keats soggiornò negli ultimi mesi della sua vita, insieme all’amico pittore Joseph Severn. Keats, malato di tisi, vi si era stabilito nell’inverno del 1820, sperando che il clima romano, molto più mite di quello inglese, potesse aiutarlo a guarire, ma inutilmente: morì infatti il 23 febbraio 1821 all’età di appena venticinque anni.
L’edificio, che fiancheggia il lato destro della scalinata di Trinità dei Monti, risale al 1725 ed è opera di Francesco De Sanctis, lo stesso autore della scalinata; all’epoca di Keats era una pensione gestita dalla signora Anna Angeletti, ma l’appartamento al piano nobile, con la camera del poeta, fu acquistato nel 1906 dalla Keats and Shelley Memorial Association e trasformato in museo, venendo inaugurato il 3 aprile 1909 da re Vittorio Emanuele III dopo essere stato ridecorato e dotato di una biblioteca che contiene una delle migliori collezioni di testi sui poeti romantici.
Recandosi al suo interno e sfogliandone il registro dei visitatori, ci si rende purtroppo conto di come si tratti quasi esclusivamente di turisti stranieri: è in effetti un vero peccato che i turisti italiani, e nello specifico i cittadini romani, non si sentano attratti dalle suggestioni poetiche di tale luogo, se non altro per godere di una vista eccezionale e per ammirare alcuni pregevoli dipinti, tra cui quello di Severn raffigurante Percy Bysshe Shelley, mentre scrive il suo Prometeo Liberato alle Terme di Caracalla. Anche Shelley visse infatti in Piazza di Spagna, tra il 1818 e il 1819, e ospitò nella sua casa il grande amico George Byron, cui pure è dedicata una sezione del museo.
Oltre a numerosi manoscritti ed alla maschera mortuaria di Keats, un reliquiario d’argento appartenuto a Papa Pio V racchiude i ricordi forse più famosi della “British Literature”: due ciocche di capelli, l’una di John Milton, l’altra di Elizabeth Barrett Browning, altri grandissimi nomi della poesia inglese. La ciocca di Milton, venuta in possesso del poeta Leigh Hunt, fu da questi mostrata all’amico Keats che su di essa scrisse dei famosi versi, mentre lo stesso Hunt le dedicò ben tre sonetti. Alcuni anni dopo Leigh Hunt divise la ciocca, dandone la metà a John Browning, che la conservò in questo reliquiario insieme ad una ciocca che la moglie Elizabeth gli aveva donato al tempo del corteggiamento e della quale ella stessa aveva scritto in due dei Sonnets from the Portuguese. Anche i coniugi Browning si stabilirono a Roma, al numero 43 di via Bocca di Leone, entrando così a far parte della colonia dei compatrioti della piazza, i cui membri continuavano a tenere nella Città Eterna i loro circoli, le loro cacce, i loro tè e i loro balli.
BABINGTON’S TEA ROOMS
Sull’altro lato della scalinata vi è un edificio gemello della Casina Rossa, che gode anch’esso di analoga cittadinanza: vi ha sede infatti la Babington’s Tea Rooms, una sala da tè molto frequentata dagli inglesi che qui evidentemente hanno l’impressione di trovarsi come a casa loro. Furono due abili signore, Miss Babington e Miss Cargill, a fondare nel 1893 questo locale nel desiderio tipicamente britannico di conservare intatte all’estero le tradizioni della loro terra.
Soltanto due finestre della sala danno sulla piazza, mentre la porta d’ingresso, dai caratteristici riquadri di vetro con le giunture piombate, si trova nell’atrio del palazzo ospitante. Gli arredi in legno scuro, le lampade, le stampe ed i tendaggi dai disegni floreali, come pure i caminetti, il pavimento di legno e le travi a vista del soffitto conservano il carattere originario e contribuiscono, insieme all’impeccabile servizio, a dare un’atmosfera quasi vittoriana all’ambiente.
LA CHIESA D’OGNISSANTI
Nell’adiacente Via del Babuino, a conferma dell’atmosfera anglosassone di questa area, svetta la Chiesa d’Ognissanti (All Saints’ Anglican Church) che conferisce una nota di “gothic revival” ad una strada essenzialmente barocca. L’edificio, costruito nel 1882 da George Edmond Street, sembra in effetti voler riproporre con il suo stile neogotico l’architettura della patria lontana. Un piccolo ambiente circolare, situato sotto la torre con l’alta guglia che prospetta la via, introduce in un corridoio e quindi nella chiesa a sinistra del presbiterio; nell’interno, a tre navate separate da pilastri e colonne che sorreggono archi a sesto acuto, la cosa che colpisce maggiormente è l’uso di marmi colorati provenienti da varie parti d’Italia, dal verce di Carrara al rosso di Perugia, dal nero di Verona al giallo di Siena.
Dello stesso periodo e dello stesso autore è la chiesa americana di San Paolo Dentro le Mura lungo Via Nazionale, caratterizzata anch’essa dalla presenza di materiali ricercati e arricchita nel catino absidale e nel coro da mosaici del famoso artista preraffaelita Edward Burne Jones.
IL CIMITERO ACATTOLICO
Recandosi a Testaccio, si possono ammirare altre due memorie inglesi. La prima è il Cimitero di Guerra del Commonwealth di Roma, in cui hanno trovato sepoltura i soldati inglesi, scozzesi, irlandesi, gallesi, canadesi, australiani, neozelandesi e perfino indiani che hanno perso le loro vite nel corso dei combattimenti della seconda guerra mondiale. Varcato il tempietto circolare che fa da ambulacro, si cammina su un prato verde curatissimo (un vero “prato all’inglese”) su cui si erge una croce bianca, con sullo sfondo le antiche mura aureliane. Ci si dimentica quasi dei cippi funebri, tanta è la serenità del luogo: le 426 lapidi sono tutte uguali e disposte in file ordinatissime, differenziandosi solo per le scritte (il nome del militare, l’età al momento del decesso, lo stemma del reggimento di appartenenza).
Tornando poi per un attimo ai già citati poeti romantici Keats e Shelley, essi sono entrambi sepolti a Roma nel Cimitero Acattolico di Testaccio, un’altra visita fondamentale per i turisti inglesi e per gli appassionati di letteratura. Nei primi decenni del Settecento la comunità degli stranieri residenti a Roma acquistò una piccola area da adibire a sepoltura dei propri morti proprio a ridosso di uno dei più celebri sepolcri dell’antichità, la Piramide Cestia. Le sepolture, nel rispetto della legislazione pontificia, vi avvenivano di notte, probabilmente per evitare di suscitare reazioni ostili da parte dei cattolici; non di rado l’area cimiteriale, priva di recinzioni, era infatti soggetta a profanazioni. Soltanto nel 182 fu permessa la costruzione di un fossato, sostituito nel 1870 da un muro.
La parte antica del cimitero, proprio accanto alla Piramide, si presenta come una distesa erbosa povera di alberi, per non ostacolare la vista della monumentale tomba di Caio Cestio. Proprio in questa zona è sepolto Keats accanto all’amico Severn, morto nel 1879. Le loro pietre tombali, quella del poeta con una lira stilizzata e l’altra con una tavolozza, si distinguono per la loro semplicità e soprattutto colpisce il fatto che nella prima non vi sia il nome, ma soltanto un’iscrizione che in italiano suona così: “Questa tomba contiene tutto ciò che fu mortale di un giovane poeta inglese che, sul suo letto di morte, in risposta al maligno potere dei suoi nemici desiderò che queste parole fossero scolpite sulla sua pietra tombale: qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”.
La tomba di Percy Shelley si trova invece nella parte ottocentesca del cimitero, costruita a ridosso delle Mura Aureliane e fittamente occupata da monumenti funebri e altissimi cipressi, presso una torre delle Mura Aureliane. Anche essa è collocata vicino a quella di un suo amico, Edward J. Trelawny, che si era incaricato di trasportare il cuore del poeta in Inghilterra e le sue ceneri in questo cimitero, dove già riposava Keats. Sulla lastra tombale di Shelley, morto trentenne nel 1822 in occasione di un naufragio ed il cui corpo fu ritrovato sulla spiaggia di Viareggio e quindi arso da Byron alla maniera degli eroi greci, alcuni versi tratti dal canto di Ariele nella Tempesta di Shakespeare sembrano alludere al nome del battello affondato, l’Ariel, su cui Shelley era imbarcato.
Anche uno dei figli di Percy e Mary Shelley giace nei pressi della tomba di Keats. La giovane età e una fine tragica sembrano in effetti accomunare gran parte dei morti qui presenti: da un lato si trattava spesso di artisti dalla vita intensa e sregolata, dall’altro all’epoca non vi erano cure adeguate per molte malattie, ma quel che è certo è che tutto ciò ha contribuito a far assumere al Cimitero Acattolico quell’alone di fascino misterioso tanto caro alla morbosa sensibilità romantica.