La denuncia di una giovane studiosa: “In Italia la ricerca scientifica ti sfianca, è eterna battaglia per trovare finanziamenti”
Martina ha 34 anni e ha dedicato la vita alla ricerca sulla distrofia muscolare di Duchenne. L’amaro sfogo sul tema.
Ciao sono Martina e sono una ricercatrice.
Oggi mi hanno comunicato che un progetto in cui credevo tanto non è stato finanziato… quindi non so se il prossimo anno avrò ancora un posto come ricercatore.
Oggi un lavoro che provo a pubblicare da mesi è stato bocciato senza reali motivazioni… purtroppo non è la prima volta.
Oggi è una brutta giornata.
Oggi Andrea ci ha salutato.
Penso a tutto quello che è successo oggi e una scossa mi attraversa tutto il corpo partendo dai piedi fino alle mani che scrivono, anzi vomitano, tutta la rabbia che provo in questo momento.
Ho iniziato a fare ricerca perché volevo aiutare ragazzi come Andrea, perché volevo contribuire a trovare almeno un piccolo mattoncino per curare questi ragazzi. E allora mi sono rimboccata le maniche, ho studiato tanto, ho sacrificato tanto e ho dedicato anima e corpo a questo lavoro.
Invece sai cosa? Sono finita a combattere non per i giusti principi ma per rimanere a galla e non affogare.
In Italia la ricerca ti sfianca, e non per la mole di studio e di lavoro che fai per cercare di trovare una cura, ma ti sfianca perché è un’eterna battaglia per trovare soldi per te, e per chi lavora con te. Un continuo. Anno dopo anno.
In Italia la ricerca è uno di quei pochi lavori dove devi lottare fino a essere stanco e ti ritrovi ad abbandonare ciò in cui credi.
Oggi quel mattoncino ancora non l’ho trovato.
Oggi più del 50% del tempo che avrei dovuto dedicare alla ricerca l’ho dovuto dedicare a combattere contro una società che non valorizza uno dei lavori più nobili al mondo.
Oggi mi sento in colpa per non aver fatto di più.
Oggi sono arrabbiata perché non ho avuto modo di fare di più.
Noi lavoriamo e studiamo tanto ma non abbiamo la certezza che l’anno a venire avremo di nuovo un posto di lavoro. Questo significa che invece di dedicare il tempo a trovare una cura, lo investiamo a cercare un posto di lavoro per l’anno successivo.
Ricercatore a tempo indeterminato? Si certo si può. Si può solo se hai avuto la fortuna di entrare nel “giusto” laboratorio con le “giuste” persone. E se per caso riesci ad entrare all’università e ad iniziare la carriera universitaria da ricercatore devi dedicare tanto di quel tempo all’insegnamento che non hai più tempo per fare ricerca.
E se non fai parte di queste categorie devi sperare di incontrare colleghi che condividono la tua stessa passione, con i quali cerchi di spalleggiarti e tirarti su di morale quando ci sono momenti difficili come questi. Cosi, nonostante le difficoltà che trovi, cerchi di mantenere vivo l’animo con cui hai iniziato questo lavoro. E li per li ti basta. Ma con gli anni anche questo diventa sempre più difficile. E non ti basta più.
Quindi scusami, pensavo di fare grandi cose o comunque ci volevo provare e invece di dedicare
il mio 100% a te devo combattere contro una società che non ci considera dei lavoratori e non valorizza il lavoro che facciamo.
Ieri speravo di cambiare le cose.
Ieri il bicchiere era mezzo pieno.
Oggi le cose non sono cambiate, anzi sono peggiorate.
Oggi il bicchiere si svuota piano piano.
Oggi è impossibile fare ricerca in Italia.
Oggi è una brutta giornata.
Martina Sandonà è una ricercatrice romana di 34 anni. Si è laureata in Chimica nel 2014 e successivamente ha preso il dottorato in biologia (in particolare in morfogenesi e ingegneria tissutale) nel 2017. Dal 2013, prima con il tirocinio poi con il PhD e attualmente con il Post Doc, studia la distrofia muscolare di Duchenne, patologia che conosceva già bene prima del tirocinio grazie ai suoi genitori, volontari dell’associazione Parent Project Onlus. A sua volta volontaria dell’Associazione da giovanissima, ha deciso di intraprendere gli studi scientifici per poter diventare una ricercatrice.
Andrea era un ragazzo affetto da distrofia muscolare di Duchenne. Quest’anno avrebbe compiuto 30 anni. Martina lo ricorda con queste parole: “Lo conoscevo da tanto, anzi da sempre. Andrea era una delle prime persone che ho conosciuto quando sono venuta a contatto con l’associazione Parent Project. Andrea, prima che un ragazzo con Duchenne, era un amico di famiglia. Era una persona così solare e autoironica che era sempre un piacere stargli vicino, con lui ridevi sempre e non c’era mai spazio per la tristezza. Era quella tipica persona che ti ricorda che i disabili sono considerati ‘diversi’ solo se tu li vedi così, loro sono persone come tutti e non vanno etichettati. Andrea era quella persona con un sorriso così grande che ti faceva dimenticare la malattia e le difficoltà. Ma io quelle difficoltà, con gli anni, l’ho conosciute, viste e capite bene, sia intese come problemi fisici sia come barriere architettoniche di questo mondo, e quindi è grazie anche ad Andrea che ho deciso che avrei cercato di fare qualcosa per curare questi ragazzi”.