Incanta Napoli il visionario Papaioannou
La “Lezione di anatomia” di Rembrandt è un quadro animato e un po’ splatter dove il cerusico dottor Tulp estrae metri di budella dal cadavere. Nella “Nascita di Venere” del Botticelli la dea è un ragazzo che si copre castamente con una mano e dondola cullato dal soffio di Zefiro e Flora. Morte e resurrezione. Spighe dorate e aride pietre, sepolture e rinascite: l’eterno ciclo della vita. Dunque il mito di Persefone, la dea greca sposa di Ade che trascorreva sei mesi nel regno dei morti e sei mesi sulla terra facendola rifiorire al suo passaggio. Il greco Dimitris Papaioannou, talento immaginifico, artista visivo, regista, coreografo e performer indica in questo mito la fonte di ispirazione per “The Great Tamer” il suo nuovo spettacolo presentato al Napoli Teatro Festival. Il domatore (the Tamer) è il tempo secondo Omero e i tragici greci. Ma, nonostante questi riferimenti classici, le possenti immagini che organizza in scena Papaioannou sono totalmente contemporanee e prendono vita su un palco coperto di plance grigie, grazie a dieci interpreti e con pochi semplici elementi (un tavolo, delle pietre) che evocano il mondo dell’arte povera. È Yannis Kounellis, qui, l’artista di riferimento. “The Great Tamer” è atteso al Festival di Avignone ed è programmato in tour sino a fine marzo del 2018. È il terzo pannello di una trilogia costituita da “Still Life” e “Primal Matteri” visti a Ravello Milano e Vicenza.
Autore dello spettacolo inaugurale delle Olimpiadi di Atene, nel maggio 2018 Papaioannou sarà il primo coreografo invitato a realizzare uno spettacolo a serata intera a Wuppertal per la compagnia di Pina Bausch.
L’iterazione, i ritmi lenti, l’evocazione di immagini perturbanti sono le sue caratteristiche dominanti. Anche nel “Grande Domatore” dove il legame con il sottosuolo emerge subito da quelle scarpe che un danzatore fatica a staccare da terra per le radici che le trattengono. Un uomo si spoglia e si distende nudo, un altro lo copre con un telo bianco come una sepoltura, un terzo muovendo un pannello fa volare via il panno leggero: quasi un rifiuto della morte.
Spettacolo di teatrodanza o arte figurativa che si anima? Le citazioni, rivissute in modo contemporaneo, si susseguono. E non solo grandi quadri del passato. Dal fondo della scena arriva l’astronauta di “Odissea nello spazio”, scosta le tavole di legno ed estrare il corpo di un Cristo morto.
L’ironia non è esclusa: braccia, gambe, torsi maschili e femminili emergono da sottoterra e il tentativo di ricomporre un corpo intero è vano. Tre ragazze in body nero e tacchi alti ci portano in una atmosfera da cabaret. Tenendosi per mano tutti i danzatori danno vita a una danza macabra, e l’interminabile girotondo si inabissa sotto terra per poi risorgere dal fondo della scena.
Utilizzando una versione distorta, al rallentatore del “Danubio Blu” di Johann Strauss l’autore trasforma questo continuo giocare fra suolo e sottosuolo in un’ossessione che si placa soltanto con l’immagine finale dello scheletro che due performer presentano alla fine in proscenio e che scivolando a terra e si riduce a un mucchietto di ossa.