Greenwashing, parte la stretta Ue grazie alla pubblicazione della Direttiva
Redatta la “black List” che elenca le varie pratiche aziendali scorrette e che saranno considerate come attività di greenwashing da parte dell’Unione europea
A partire dal 27 settembre 2026, l’adozione da parte di imprese e professionisti di comportamenti inclusi nella “black list” della nuova direttiva 2024/825/Ue sarà qualificata come “greenwashing“. Tale qualificazione potrà essere stabilita senza la necessità di ulteriori prove, davanti alle competenti autorità degli Stati membri. Il termine “greenwashing” si riferisce al nuovo provvedimento dell’Unione Europea volto a contrastare il cosiddetto marketing ambientale fuorviante, noto anche come ecologismo di facciata. Questa pratica consiste nel presentare prodotti o processi come più rispettosi dell’ambiente di quanto siano effettivamente. Il recente provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue il 6 marzo 2024, introduce nel sistema legale dell’Unione Europea un elenco dettagliato di pratiche commerciali che gli Stati membri devono considerare “sempre sleali”, in quanto ingannevoli riguardo alle reali qualità ambientali dei beni o servizi promossi.
Il recente provvedimento costituisce una riformulazione della direttiva 2005/29/CE sulla tutela dei consumatori, la quale proibisce preventivamente le “pratiche commerciali” – azioni e omissioni mirate a promuovere un prodotto – considerate “sleali”. Queste pratiche sono valutate in base alla loro contrarietà alla diligenza professionale e alla loro falsità o capacità di alterare in modo significativo il comportamento economico del consumatore medio.All’interno del concetto di “pratiche commerciali sleali”, la direttiva 2005/29/CE individua due categorie specifiche: le “ingannevoli“, capaci di indurre in errore i consumatori, e le “aggressive“, caratterizzate da pressioni illegittime sugli stessi
In questo contesto normativo, la neo direttiva 2024/825/UE interviene inserendo figure specifiche di greenwashing negli elenchi della direttiva 2005/29/CE, che identificano le tipologie più comuni di pratiche commerciali ingannevoli. Questo intervento mira a alleggerire il carico probatorio sugli individui e le associazioni di tutela nelle opportune sedi.
L’intervento di maggiore rilevanza della direttiva 2024/825/UE si evidenzia attraverso l’aggiunta di specifiche figure di “marketing ambientale” nell’allegato 1 alla direttiva 2005/29/CE, che elenca le pratiche commerciali “considerate in ogni caso sleali” sulla base di una presunzione legale, comunemente nota come “black list”.Riguardo a tali figure, i soggetti interessati saranno esonerati dalla necessità di dimostrare che la condotta è idonea a falsare in modo rilevante la scelta commerciale della persona media. In primo luogo, secondo la riformulata “black list”, sarà considerata condotta di greenwashing per presunzione legale “l’esibire un marchio di sostenibilità che non è basato su un sistema di certificazione o non è stabilito da autorità pubbliche“.Saranno vietati sia i marchi volontari non verificati da soggetti terzi, indipendenti e rispondenti a requisiti ex lege, sia quelli non istituiti dall’Ue (come ad esempio l’Ecolabel) o dai singoli Stati membri (come il “Green made in Italy” di cui al dm 56/2018).
Inoltre, sarà considerata pratica commerciale “in ogni caso sleale” il “formulare un’asserzione ambientale generica senza poter dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti”. Questo colpirà le dichiarazioni ambientali (diverse dai marchi) non chiaramente supportate attraverso lo stesso mezzo di comunicazione (come le generiche affermazioni “verde”, “ecologico”, “ecocompatibile”, “rispettoso dell’ambiente”) e i cui autori non saranno in grado di dimostrarne la conformità a sistemi di qualità ambientale riconosciuti ex lege.
Regole per i marchi di sostenibilitàI marchi di sostenibilità sono essenziali per indicare le qualità ecologiche o sociali di un prodotto, processo o azienda. La loro affidabilità dipende dalla trasparenza e dalla certificazione da parte di autorità riconosciute. Per questo motivo, la direttiva 2005/29/CE prevede che i marchi non certificati o non riconosciuti da enti pubblici non possano essere esibiti. Prima di utilizzare un marchio di sostenibilità, l’azienda deve assicurarsi che questo rispetti criteri di trasparenza e affidabilità, verificabili attraverso controlli indipendenti conformi a standard internazionali come la norma ISO 17065.I marchi di sostenibilità pubblici, come quelli che attestano la conformità ai regolamenti (CE) n. 1221/2009 o (CE) n. 66/2010, sono esempi di loghi riconosciuti. Anche alcuni marchi di certificazione possono essere considerati come marchi di sostenibilità se promuovono aspetti ambientali o sociali, ma solo se rilasciati da autorità pubbliche o basati su sistemi di certificazione validi. Questa disposizione rafforza il punto 4 dell’allegato I della direttiva 2005/29/CE, che proibisce di dichiarare falsamente l’approvazione di un prodotto o pratica commerciale da parte di enti pubblici o privati.