La giudice Paola Di Nicola:«È urgente formare i magistrati, spesso sottovalutano le violenze»
Corriere della Sera. Luisa, la newsletter de La27Ora
Una sentenza rivoluzionaria. E una condanna, nel 2014, che portò l’imputato non solo a un risarcimento economico, ma anche morale, con l’acquisto di libri sul pensiero delle donne. Nella vicenda delle ragazze minorenni del quartiere Parioli di Roma, al centro di un giro di prostituzione, Paola Di Nicola Travaglini è la giudice che all’epoca, spazzando via stereotipi anche istituzionali, ribaltò il punto di vista sul caso.
E per risarcire una delle minorenni, «vittima» di quegli uomini della «Roma-bene», puntò nella sentenza sulla conoscenza, come forma di libertà. «Com’è possibile risarcire quello che una minorenne ha barattato per denaro dandole altro denaro? Non farei che ripetere la stessa modalità che ha avuto l’imputato con la vittima, rafforzando in entrambi l’idea che tutto sia monetizzabile. Allora ho ritenuto, da giudice, che non fosse il denaro a risarcire quella ragazzina, ma i libri sulla storia delle donne, sul loro pensiero, sulla loro intelligenza, sulla loro capacità».
Alla giudice Paola Di Nicola Travaglini, oggi consigliera in Corte di Cassazione penale e nel tavolo tecnico contro la violenza sulle donne del ministero per le Pari Opportunità, è dedicata la pièce Tutto quello che volevo. Storia di una sentenza di e con Cinzia Spanò, diretta da Roberto Recchia, che da nove anni gira i teatri di tutta Italia.
E il 3 maggio sarà al Teatro Sperimentale di Pesaro, il 6 maggio alla Casa Teatro ragazzi e giovani di Torino, il 20 settembre al Teatro Don Bosco di Padova.
Giudice Di Nicola Travaglini, perché la sua sentenza del 2014 diventata esempio a livello internazionale e anche pièce a teatro, è rimasta un caso isolato?
«In quel momento ho spostato l’interesse, anche mediatico, dalle vittime agli aggressori, cercando di fare capire quanto era viziata la lettura del caso e il modello di narrazione di giornali e tivù. Perché la sentenza è rimasta isolata? Bisogna chiederlo ai giudici venuti dopo…».
Nove anni dopo il debutto della pièce a teatro, cosa è cambiato?
«In magistratura è cambiato molto: abbiamo una donna a presiedere la Corte di Cassazione, abbiamo il 54 % di donne in magistratura, abbiamo l’Accademia della Crusca che formalizza la correttezza dell’uso del femminile nelle nostre professioni. Elementi decisivi dal punto di vista simbolico. Adesso abbiamo bisogno del cambiamento che nasce dalla consapevolezza di appartenere a un genere, quello femminile, escluso dall’interpretazione per millenni perché temuto per le sue capacità trasformative. Dobbiamo osare di più. Fino a oggi a Roma dove sono avvenuti i fatti della sentenza, quella pièce sul giro di prostituzione ai Parioli non è stata mai rappresentata».
Sempre ispirata alla sua sentenza, è stata la serie tv Baby con Benedetta Porcaroli, trasmessa su Netflix. Cosa ne pensa?
«È una serie tv che non racconta la prostituzione minorile, a partire dal titolo che vuole evocare la malizia. Una serie che non mostra l’orrore dei clienti che picchiano, che sfruttano quei corpi senza chiedere il permesso di nulla, che li usano come stracci pensando che pagare consenta loro di distruggere tutto. Dei clienti non si parla mai. Baby ci mostra una prostituzione minorile che non esiste, un gioco glamour. Dietro ci sono criminali dai quali non ti liberi più, è l’affare economico più lucroso del mondo e quello che devasta corpi, menti, sogni, identità per sempre. Io tutto questo nella serie tv non l’ho visto».
Oggi la violenza istituzionale e giudiziaria è ancora così radicata?
«È una struttura culturale che porta avanti stereotipi invisibili in cui le donne sono colpevolizzate sempre, anche se vittime. C’è un immediato inconsapevole capovolgimento delle responsabilità da parte di chiunque, giornalisti, magistrati, avvocati, forze di polizia. Perciò è indispensabile avere consapevolezza su quanto accade in modo automatico, bisogna utilizzare tutti gli strumenti per modificare tale modo di procedere».
Qualcosa sta cambiando all’interno della magistratura?
«Stiamo andando avanti a piccoli passi. La scuola superiore di magistratura sta facendo corsi sui pregiudizi giudiziari, ma su base volontaria. È un segnale, anche se non basta. È necessario studiare, approfondire, cambiare l’impostazione radicata nel contesto sociale, un contesto di cui anche la magistratura fa parte».
Cosa accade nelle aule dei tribunali quando si parla di violenza di genere?
«L’Italia nel 2022 è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani proprio perché sottovaluta la violenza che viene praticata in sede giudiziaria nei confronti delle madri vittime di violenza durante separazioni e divorzi. Poi ci sono sentenze della Corte di Cassazione che escludono l’esistenza della Pas, la cosiddetta sindrome da alienazione parentale, che viene utilizzata per togliere i figli alle madri. Ce lo dice anche la Convenzione di Istanbul, la violenza giudiziaria, specie in sede civile, è sempre di più la nuova frontiera della violenza contro le donne. Come uscirne? È fondamentale che i giudici civili si attrezzino culturalmente. La formazione dei giudici civili su questi temi è un problema gigantesco, spesso sottovalutano le violenze e così rischiano di confondere conflitti familiari e violenza, due cose completamente diverse».
Molte donne private dei figli dopo avere denunciato la violenza del partner, lamentano giudici che agiscono contro la legge, ma restano intoccabili.
«Tutti i giudici sono tenuti ad applicare le convenzioni internazionali ratificate. Le sentenze ritenute sbagliate vanno impugnate in Corte d’Appello e Corte di Cassazione, sono percorsi processuali lunghi, ma producono effetti. La deliberata non applicazione delle leggi o convenzioni da parte dei giudici può condurre a responsabilità disciplinari. Credo però sia un problema culturale, di mancanza di strumenti culturali, non di volontà».
Parlando di donne, violenza di genere e giustizia, cos’è più urgente oggi?
«È urgente e prioritaria la formazione obbligatoria per legge di tutti i magistrati e operatori che in qualsiasi modo entrano in relazione con casi di donne vittime di violenza».
Si arriverà a una formazione adeguata di chi lavora nei tribunali?
«Sì. Non si può più tollerare la sottovalutazione di quello che è uno dei fenomeni criminali e culturali più diffusi nel mondo».